Il singolare teorema della domanda implicita e la sua compatibilità con i principi cardine dell’ordinamento processuale civile

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Commento redatto dagli Avv.ti Vincenzo Cretella e Francesca Pansa

IL SINGOLARE TEOREMA DELLA DOMANDA IMPLICITA E LA SUA COMPATIBILITÀ CON I PRINCIPI CARDINE DELL’ORDINAMENTO PROCESSUALE CIVILE

È legittimo il provvedimento decisorio con il quale il Giudice assegnatario della vertenza dispone per l’accoglimento di una domanda desunta, a parere dello stesso Magistrato, “implicitamente” dal tenore delle richieste giudiziali effettivamente promosse dall’attore?

(Nota di commento Tribunale di Milano, Giudice Dott.ssa Silvia Vaghi – Sentenza n. 11199 del 2019).

SOMMARIO

La vicenda processuale…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….………………1
L’esame del decisum…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..……………5
Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sancito dall’art. 112 c.p.c., quale conseguenza dell’illegittimo ampliamento del thema decidendum da parte del giudice…………………………………………………………………………………………………………………….…………………………6
Violazione del principio dispositivo di natura processuale sancito dall’art. 115 c.p.c.. in ragione dell’illegittimo utilizzo, ai fini della decisione, di una consulenza tecnica d’ufficio evidentemente esplorativa………………………………………………………………………..………………………………………………8
Inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle risultanze dell’elaborato peritale in ragione della loro palese erroneità………………………………………………………………………………………………………………………..……………………………………………………..………………11
Conclusioni…………………………………………………………………………………………………………………..…………………………………………….………………………..14

 LA VICENDA PROCESSUALE.

 Con atto di citazione in opposizione ex artt. 615 – 617 c.p.c., munito di apposita istanza di sospensione ex artt. 618 – 624 c.p.c., i debitori precettati/ attori opponenti convenivano innanzi al Tribunale Civile di Milano la Banca creditrice procedente / convenuta opposta per ivi sentire accertare l’illegittimità sia dell’atto di precetto notificato che del titolo esecutivo azionato, eccependo

l’adozione, da parte della Banca nel corso del rapporto contrattuale (nella fase patologica dello stesso), di una condotta in violazione dei principi di correttezza e buona fede;
l’invalidità del precetto opposto dovuta all’omessa:
a) notifica del titolo esecutivo;
b) specifica individuazione nell’atto di precetto del contratto di mutuo azionato;
c) trasmissione della comunicazione di decadenza dal beneficio del termine, ex 1186, in un atto diverso dal precetto inoltrato antecedentemente a quest’ultimo;
la pattuizione di interessi moratori superiori alla misura consentita in aperta violazione della normativa antiusura di cui alla Legge n. 108/1996;
l’adozione, da parte della Banca, nel corso del rapporto contrattuale di pratiche anatocistiche frutto alla illegittima capitalizzazione degli interessi maturati.

Nel costituirsi ritualmente in giudizio, la Banca opposta contestava formalmente ogni singola eccezione sollevata della controparte e, a fronte della fondatezza degli assunti riportati in comparsa, richiedeva il rigetto dell’opposizione spiegata.

All’esito della prima udienza di comparizione delle parti, con apposita Ordinanza del 28.07.2016, il primo Giudice assegnatario della vertenza, rigettava l’istanza di sospensione del titolo e rinviava la causa all’udienza del 15.02.2017 per la precisazione delle conclusioni.

Evidentemente, detto Giudice fissava direttamente l’udienza di precisazione delle conclusioni escludendo la necessità di svolgere una attività istruttoria, anche mediante la nomina di un consulente tecnico di ufficio, non ritenendo che le questioni sottoposte alla sua cognizione, in effetti a ben vedere di mero diritto, anche e soprattutto con riferimento alla lamentata usurarietà del tasso di mora, richiedessero, per la loro risoluzione, specifiche competenze tecniche.

Nelle more, a seguito di reclamo promossa avverso l’Ordinanza del 28.07.2016, veniva disposta la sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sulla scorta di una diversa interpretazione dell’art. 4 del contratto di mutuo relativo alla modalità di calcolo degli interessi di mora.

In estrema sintesi, a fronte di una disposizione contrattuale (art. 4) pienamente rispettosa della normativa vigente in materia di usura nella sua parte dispositiva peraltro confermata dai contenuti del documento di sintesi:

il primo Giudice assegnatario del fascicolo relegava l’indicazione numerica, nella parte ricognitiva di detta clausola, di un tasso di mora superiore alla soglia usuraria ad un mero errore materiale anche alla luce di una interpretazione che teneva nel giusto riguardo la comune intenzione delle parti ai sensi dell’art. 1362 c.c., disponendo il rigetto dell’istanza di sospensione del titolo ed il rinvio della causa direttamente per la precisazione delle conclusioni;
il Tribunale, in composizione collegiale, in sede di reclamo, ritenendo, invece, anche la sola indicazione di un tasso superiore al tasso soglia rilevato ai sensi della l. n. 108/1996 idonea a configurare l’usura originaria del contratto ordinava la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo.

All’udienza del 15.02.2017, Il Giudice Onorario in temporanea sostituzione del Giudice Istruttore, andando ben al di là delle sue legittime attribuzioni, anziché limitarsi a raccogliere la precisazione delle conclusioni operata dalle parti in causa, concedeva i termini di cui all’art. 183 VI comma c.p.c. e, all’esito dell’articolazione dei mezzi istruttori, disponeva la nomina di un CTU contabile sottoponendogli un quesito volto alla verifica dell’usurarietà del tasso corrispettivo mediante l’inserimento dei costi relativi alle polizze personali degli opponenti, nonostante non fosse stata azionata nessuna domanda giudiziale in tal senso da parte degli stessi (la contestazione relativa alla lamentata usurarietà, infatti, investiva solo ed esclusivamente il tasso di mora).

Il Consulente nominato, espletate le operazioni peritali, concludeva per l’usurarietà ab origine del tasso corrispettivo dopo aver erroneamente raffrontato, si badi bene, il TAEG (e non il TEG, come impone la legge) con il tasso soglia.

Il Tribunale di Milano, in persona del nuovo Giudice assegnatario del giudizio, la Dott.ssa Silvia Vaghi, a seguito del deposito delle memorie conclusionali, sulla scorta delle conclusioni rassegnate dal consulente, viziate da un evidente errore metodologico (il raffronto del TAEG e non del TEG con il tasso soglia) e sulla base di un indebito ampliamento del thema decidendum dovuto all’estensione, in assenza di domanda in tal senso, dell’accertamento sull’usurarietà del contratto anche al tasso corrispettivo, con la sentenza n. 1119/2019, definitivamente pronunciando così provvedeva:

“…– in accoglimento della domanda attorea, accerta e dichiara la nullità delle clausole 3 e 4 del contratto di mutuo oggetto di causa concluso tra le parti in data 1.4.2009, nella parte in cui prevedono la corresponsione di interessi, in quanto nulli per usurarietà ex art. 1815 co. II c.c.;

– accerta e dichiara che parte attrice ha già rimborsato a parte convenuta l’importo del capitale finanziato nella misura di € 119.016,59 sino a parte della rata n. 148 (per € 436,59) e sino al 31.10.2021 e che in ogni caso nulla è dovuto a titolo di interessi ed ogni altro onere connesso all’erogazione del credito per il restante corso del rapporto;

– accerta e dichiara l’illegittimità della decadenza dal beneficio del termine e della risoluzione del mutuo per cui è causa e che gli attori sono ancora tenuti corrispondere a Banca. l’importo capitale di € 171.383,41, con rate mensili di € 806,67 cadauna, secondo quanto indicato in parte motiva e nel piano di ammortamento di cui all’allegato 4 della consulenza tecnica espletata (a decorrere dal 31.10.2021 e comunque da quota parte della rata n. 148);

– rigetta le restanti domande attoree;

– condanna parte convenuta a rimborsare a parte attrice le spese di lite, che si liquidano per il presente giudizio in complessivi € 25.664,40, a titolo di compensi, € 174,00 per anticipazioni, e per il procedimento di reclamo, in complessivi € 5.994,00, a titolo di compensi, € 195,00 per anticipazioni, oltre 15% ex art. 2 comma 2 DM 55/14, CPA e IVA sulle somme imponibili, se non detraibile dalla parte vittoriosa, con distrazione delle spese a favore del procuratore degli attori dichiaratosi antistatario;

– pone definitivamente le spese di CTU a carico di parte convenuta…”.

 

L’ESAME DEL DECISUM.

La decisione assunta dal Giudice adito presta il fianco a tutta una serie di critiche che ne inficiano, in maniera irrimediabile, la bontà.

Non pare, infatti, a parere degli scriventi, condivisibile l’iter logico-argomentativo seguito dal Giudice dell’opposizione dal momento che lo stesso si pone, quantomeno, si ripete, secondo l’opinione di chi scrive, in aperto contrasto anche con alcuni dei principi cardine del nostro ordinamento processuale per i motivi di seguito brevemente esposti.

 A. VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO, SANCITO DALL’ART. 112 C.P.C., QUALE CONSEGUENZA DELL’ILLEGITTIMO AMPLIAMENTO DEL THEMA DECIDENDUM DA PARTE DEL GIUDICE.

Prima di ogni altra considerazione, ai fini della presente analisi, non si può fare a meno di evidenziare come, dalla semplice lettura del provvedimento decisorio oggetto di commento, emerga chiaramente che la domanda giudiziale promossa dagli opponenti sia stata indirizzata in maniera esclusiva all’accertamento della usurarietà del solo tasso di mora.

È lo stesso Giudice dell’Opposizione, infatti, che, ci sia concesso, incredibilmente, rispetto alla posizione poi assunta nel decidere la vertenza, nel riportare le doglianze mosse da parte attrice in sentenza precisa, citiamo testualmente: “…gli opponenti lamentano l’usurarietà del tasso degli interessi di mora che sarebbe stato applicato dalla Banca nella misura dell’8,085% anziché nei limiti del tasso soglia applicabile al tempo della sottoscrizione del contatto di mutuo, pari ad 6,630%, con l’effetto che, attesa l’usurarietà degli interessi moratori ai sensi dell’art. 1815 c.c….”, si veda pag. 4 della Sentenza n. 1119/2019).

Pure a fronte di questa situazione di fatto, però, il quesito posto al Consulente Tecnico d’Ufficio veniva volto alla verifica dell’usurarietà – si ribadisce, mai richiesta da parte opponente, stando a quanto riportato in sentenza – degli interessi corrispettivi, determinando un considerevole, indebito ampliamento del thema decidendum, nonchè, la violazione del principio generale secondo cui “il Giudice è vincolato ad una serie di regole, ossia a limiti e preclusioni”[1].

Il Giudice adito, pertanto, utilizzando le risultanze della perizia così predisposta ai fini della sua decisione violava apertamente il principio, espressamente sancito dall’art. 112 c.p.c., della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato emettendo una decisione viziata da ultra petizione e come tale nulla.

Infatti, “se è vero che lo scopo ultimo del processo è quello, per quanto possibile, di consentire al giudice di pronunciarsi nel merito, e quindi di accogliere o negare il bene della vita preteso dall’attore con la domanda giudiziale, è altrettanto vero che l’ordinamento deve garantire il diritto di difesa della controparte, le cui facoltà e capacità difensive non debbono essere « mortificate » dall’eventuale mutamento a « sorpresa » degli elementi oggettivi identificatori della domanda”[2].

I limiti soggettivi ed oggettivi della domanda azionata in giudizio, invero, vengono fissati, solo ed esclusivamente, dalle parti, con la conseguenza immediata e diretta che risulta preclusa al Giudice adito ogni possibilità di determinazione e/o modifica del thema decidendum[3].

Tale assunto non può di certo essere superato dalla tesi propugnata, in maniera quantomeno ardita, dal Giudice del Tribunale di Milano nel provvedimento oggetto di analisi, secondo il quale l’usurarietà degli interessi corrispettivi sarebbe stata prospettata dagli opponenti nell’atto di citazione “…implicitamente…”.

Il concetto di domanda implicita, invero, è privo di valenza logica ancor prima che giuridica, poichè è onere della parte che adisce l’autorità giudiziaria, al fine di vedere riconosciuto un proprio diritto, formulare espressamente le proprie richieste munendo le stesse di adeguato supporto probatorio.

Nel caso che qui ci occupa, invece, è del tutto evidente che, anche alla luce di quanto riportato nella sentenza analizzata, non sussistendo nessuna domanda giudiziale volta all’accertamento dell’usurarietà degli interessi corrispettivi, non può esistere alcun elemento probatorio a sostegno della domanda stessa.

B. VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DISPOSITIVO DI NATURA PROCESSUALE SANCITO DALL’ART. 115 C.P.C.. IN RAGIONE DELL’ILLEGITTIMO UTILIZZO, AI FINI DELLA DECISIONE, DI UNA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO EVIDENTEMENTE ESPLORATIVA.

Proprio partendo dall’assunto dell’ultimo capoverso, risulta del tutto evidente, quantomeno a parere degli scriventi, come il giudice, nell’ampliare illegittimamente il thema decidendum, abbia disposto, ai fini dell’accertamento dell’usurarietà dei tassi corrispettivi, una consulenza tecnica d’ufficio chiaramente esplorativa, e come tale inutilizzabile ai fini della decisione, in quanto volta ad accertare fatti estranei al perimetro dell’azione giudiziale delimitato dalle parti in causa, fornendo elementi probatori non prodotti dall’attore ovvero dal soggetto sul quale grava, ai sensi dell’art. 2697 c.c., il relativo onere.

Come è noto, difatti, secondo il costante orientamento della Suprema Corte, la consulenza tecnica d’ufficio non può essere considerata un mezzo di prova in quanto ha la funzione di fornire all’attività del Giudice l’apporto di cognizioni che questi non possiede e non quella di esonerare la parte dalla prova, anche documentale, dei fatti dedotti e della quale è onerata (ex multis Cass. Civ. Sentenza n. 1132/2000).

Sul punto, la recente giurisprudenza ha ribadito che “il ricorso al consulente deve essere disposto non per supplire alle carenze istruttorie delle parti o per svolgere una indagine esplorativa alla ricerca di fatti o circostanze non provati, ma per valutare tecnicamente i dati già acquisiti agli atti di causa come risultato dei mezzi di prova ammessi sulle richieste delle parti” ( Cass. Civ. Sentenza n. 31886/2019)[4].

Le risultanze di una eventuale Consulenza contabile disposta d’ufficio dal Giudice Istruttore, pertanto, non possono essere utilizzate per sopperire ad un difetto di allegazione di parte e costituire la prova della pretesa attorea assolvendo all’onere gravante per legge in capo a chi vanta la pretesa stessa (“…In relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio di aiutare il Giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze , il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal Giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati” (Cass. Civ. Sentenza n. 5422/2002, nello stesso senso, ex multiis, Cass. Civ. Sentenza n. 7639/2015 e Cass. Civ. Ordinanza n. 3130/2011).

Anche se, ad onor del vero, nel caso che qui ci occupa, l’assenza di adeguati elementi probatori dai quali si potesse evincere l’usurarietà del tasso corrispettivo è ampiamente giustificata dal fatto che controparte, come riconosciuto dallo stesso magistrato estensore della Sentenza, non ha mai inteso azionare una domanda in tal senso.

Proprio per questo, “sententia debet esse conformis libello. Essendo il giudice istituito per pronunziare sulle controversie che gli vengono sottoposte dalle parti, egli non può farlo sopra una cosa diversa da quella compresa nelle domande”[5].

Ora, gli scriventi ritengono, senza tema di smentita, che la circostanza che il Giudice adito abbia fondato la sua decisione sulle risultanze di una consulenza inopinatamente esplorativa, facendo leva, in maniera del tutto esclusiva, su allegazioni probatorie fornite dal proprio ausiliario e non dall’attore, si ponga in aperta violazione dell’art. 115 I° comma c.p.c. in virtù del quale “…Salvi i casi previsti dalla legge il Giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero…”[6].

Violazione che, senza meno, pregiudica la bontà del provvedimento decisorio in commento sotto un ulteriore decisivo profilo.

C. INUTILIZZABILITÀ, AI FINI DELLA DECISIONE, DELLE RISULTANZE DELL’ELABORATO PERITALE IN RAGIONE DELLA LORO PALESE ERRONEITÀ.

Oltre alle violazioni denunciate, il contegno del Magistrato estensore della decisione esaminata sembrerebbe fallace rispetto alla decisione assunta anche perché condizionato dalle risultanze erronee dell’elaborato peritale disposto dal Consulente tecnico nominato.

In buona sostanza, la consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del giudizio, oltre ad essere meramente esplorativa, anche perché volta, come ricordato, all’accertamento di una domanda giudiziale mai posta, si palesa come chiaramente inattendibile poiché le conclusioni rassegnate nella stessa sono frutto, in maniera del tutto evidente, di una erronea metodologia di analisi utilizzata dal consulente[7].

Stando a quanto emerge dalla semplice lettura della sentenza, il CTU, nel verificare l’usurarietà del tasso pattuito nel contratto di mutuo raffrontava, in maniera del tutto erronea, la soglia usuraria vigente alla stipula dell’atto con il TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) di detto contratto piuttosto che utilizzare come riferimento il TEG (Tasso Effettivo Globale).

Invero, solo il Tasso Effettivo Globale può essere utilizzato per la verifica di usurarietà delle operazioni di credito effettuate dagli intermediari finanziari autorizzati atteso che il TAEG assolve a tutt’altra funzione dal momento che stando alla definizione fornita dalla Legge n. 142/92 (che ha recepito la Direttiva n. 87/102/ CEE) rappresenta “…il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua del credito concesso e comprensivo degli interessi e degli oneri da sostenere per utilizzarlo…”.

Ora, come è noto, il valore dei due tassi non è coincidente considerato che nel TAEG, in ragione della funzione assolta, sono ricompresi oneri non presenti nel TEG.

Si pensi, ad esempio, all’imposta sostitutiva che, pur dovendo essere considerata ai fini del calcolo del TAEG, in base alla normativa anti-usura è espressamente esclusa dal computo del tasso da confrontare con la soglia usuraria (art. 644 c.p. : “…per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse collegate alla erogazione del credito…”.

Di conseguenza, non è possibile utilizzare il valore percentuale rappresentato dal TAEG, ovviamente, per i motivi sopra brevemente esposti, superiore al TEG, ai fini della verifica dell’usurarietà di una qualsiasi operazione di credito ed, in qualunque caso, mai il superamento del tasso soglia da parte del TAEG rilevabile dal contratto potrebbe determinare come conseguenza l’applicazione dell’art. 1815 II comma c.c. sia rispetto agli interessi corrispettivi che a quelli moratori pattuiti.

Da qui un ulteriore elemento di fragilità della pronuncia in discorso rispetto a quella parte fondata sulle risultanze di una consulenza che di fatto si è limitata ad accertare, in maniera del tutto erronea, il carattere usurario del TAEG ma non del TEG.

Della delineata differenza tra TAEG e TEG è ben conscio anche il Giudice istruttore dal momento che in sentenza segnala come i due tassi differiscano tra loro “…in talune voci e costi connessi all’erogazione del credito…”.

Ciononostante lo stesso Giudice ha ritenuto utili ai fini della decisione sulla usurarietà degli interessi corrispettivi le conclusioni raggiunte, si ribadisce in merito dal solo TAEG, dal Consulente tecnico non accogliendo le contestazione mosse sul punto dalla Banca opposta a causa di un presunta genericità delle stesse derivante dal fatto “…che simile è la formula indicata dalla Banca d’Italia per calcolarli…” (TAEG e TEG si intende).

Invero, la ragioni del Magistrato che ha approntato il provvedimento in esame non paiono particolarmente convincenti proprio dal momento che, come è ovvio, l’utilizzo di una medesima formula di calcolo non da origine allo stesso risultato nel caso in cui con detta formula vengano computate, come accade per il TAEG ed il TEG, voci di costo differenti.

Peraltro, considerato che la terminologia riportata nell’elaborato peritale viene adottata da un ausiliario del Giudice munito di specifiche competenze tecniche è, assolutamente, lecito presumere che se il valore da raffrontare con la soglia usuraria sia costantemente qualificato come TAEG lo stesso debba essere considerato comprensivo di tutti i costi riconducibili ai sensi di legge a detto tasso; anche di quelli non ricompresi nel TEG.

In estrema sintesi, se il CTU in perizia fa riferimento esclusivamente al TAEG, cosa di cui, peraltro, dà atto anche il Giudice in sentenza, non è dato comprendere perché tale circostanza non debba essere tacciata di errore dal momento che l’unico valore raffrontabile con la soglia usura è il TEG che quanto a composizione, per stessa ammissione del Magistrato estensore del provvedimento oggetto di commento, è, senza tema di smentita, diverso dal primo.

Ed anzi, ad onor del vero, lo stesso Giudice dell’opposizione, pure in assenza di contestazioni sul punto, riscontrato autonomamente l’errore del CTU non avrebbe dovuto fare affidamento sulle conclusioni rassegnate dal tecnico dal momento che nelle stesse, si ripete nuovamente, l’unica cosa che si afferma  è che il TAEG, e non il TEG, sia usurario.

L’errore metodologico in cui è incorso il CTU, nei fatti, non può essere messo in discussione e finisce, inevitabilmente, per riflettersi sulla pronuncia che ha fatto proprie le conclusioni del tecnico determinando un’altra evidente criticità della stessa.

 3. CONCLUSIONI

Ovviamente, le considerazioni brevemente svolte, senza alcuna pretesa di esaustività, rappresentano dei meri spunti da quali far partire una riflessione più ampia sul modo in cui l’interpretazione giudiziale possa, in certi casi, stravolgere il significato della norma processuale anche quando la lettera di quest’ultima in ragione della sua chiarezza si presta ad una lettura univoca.

                                                                                Avv. Vincenzo Cretella

                                                                                Avv. Francesca Pansa

[1] Cfr., Mario Golia Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, fasc.1, 1 MARZO 2020, pag. 359; Vellani, Le preclusioni nella fase introduttiva del processo ordinario, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 2008, I, p. 153 ss.; Id. Consolo, Commentario al codice di procedura civile, sub art. 183, Milano, 2018, p. 198; D’Alessandro, L’oggetto del giudizio di cognizione, Torino, 2016, pp. 206-207.

[2] Luigi. M. Angeletti, Responsabilita’ Civile e Previdenza, fasc.2, 2019, pag. 516.

[3] Ex multis, D’Onofrio, Identificazione delle azioni in rapporto alla teoria della litispendenza e della cosa giudicata, Benevento, 1924, p. 7 ss.; Id., Chiovenda, Identificazione delle azioni. Sulla regola « ne eat iudex ultra petita partium », in Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, vol. I, p. 157 ss., il quale fonda le proprie considerazioni, relative al tema della “domanda”, sull’imprescindibile presupposto espresso dal brocardo latino « sententia debet esse conformis libello»; Heinitz, I limiti oggettivi della cosa giudicata, Padova, 1937, p. 129 ss.; Menchini, Il giudicato civile 2, Torino, 2002, passim.; Giannozzi, La modificazione della domanda nel processo civile, Milano, 1958, p. 141 ss., sulle considerazioni relative alla ratio sottesa al divieto di ius variandi.

[4] Id. dottrina, Massimiliano Summa, Diritto & Giustizia, Nota a: Cassazione civile , 30 gennaio 2018, n.2311, sez. VI, fasc.18, 2018, pag. 11; come pure, sull’inammissibilità della CTU con intento esplorativo, cfr. Cass., sez. VI lavoro, 1 luglio 2014, n. 14963; Id., 8 febbraio 2011, n. 3130, in Giust. civ., 2011, 2, 205; nello specifico, sull’impossibilità di disporre CTU, si vedano Cons. St., sez. V, 2 maggio 2013, n. 2388; TAR Umbria, sez. I, 29 gennaio 2013, n. 49, in Foro amm. TAR, 2013, 1, 76. In generale, sull’onere probatorio, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 26 giugno 2012, n. 3000, in Foro amm. TAR, 2012, 6, 2018; Cons. St., sez. V, 27 aprile 2012, n. 2449, in Foro amm. CdS, 2012, 4, 963, ove si afferma che « la stessa (consulenza tecnica d’ufficio, ndr.) si risolverebbe in una inammissibile consulenza esplorativa. A tal proposito, la pronuncia, richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha chiarito che la CTU non costituisce un mezzo istruttorio in senso proprio, ma ha la funzione di fornire un ausilio di tipo tecnico al Giudice, per la valutazione di elementi già acquisiti o per la soluzione di questioni che richiedano specifiche conoscenze, e di conseguenza non può essere utilizzata per supplire alla carenza delle allegazioni di parte o per la ricerca di elementi di fatto non provati ».

[5] Cfr., Martina Mazzei, 2 marzo 2018, in Giuricivile, 2018, 3.

[6] Cfr.,  Roberto Poli Giustizia Civile, fasc.2, 1 FEBBRAIO 2018, pag. 417.

Id. Vito Amendolagine, Ilprocessocivile.it, fasc., Nota a: Cassazione civile , 06 dicembre 2019, n.31886, sez. III, 15 GENNAIO 2020.

[7] In tema di consulenza tecnica nel processo civile. Sul ruolo del Consulente tecnico d’Ufficio, Angelo Mambriani, Riv. dottori comm., fasc.3, 2013, pag. 559.