Quest’oggi riprenderò un caso già pubblicato sul nostro sito, ma del quale avevamo messo in risalto un aspetto diverso da quello che metterò in evidenza nelle righe che seguono.
Il caso è quello dei coniugi Esposito che, vi ricordo, proposero un’azione giudiziale nei confronti del ginecologo Dott. Saffari al fine di sentirlo condannare al risarcimento di tutti i danni conseguenti alla nascita “non desiderata” di un bambino affetto da gravi malformazioni. I coniugi proposero domanda giudiziale fondata sul fatto che essi avevano ricevuto da parte del ginecologo nel corso dell’intera gestazione costanti rassicurazioni in ordine alla salute del nascituro, le quali avevano impedito di fatto alla madre di esercitare il proprio diritto alla interruzione volontaria della gravidanza. In particolare, la malformazione derivava da un’infezione correttamente diagnosticata e comunicata alla madre, la quale però non era stata in alcun modo informata in ordine ai rischi connessi a tale tipologia di infezione. In primo grado la domanda venne accolta, pur essendo stato riconosciuto il solo risarcimento dei danni morali. Il ginecologo propose dunque appello, e la Corte riformò in parte la decisione del primo giudice. Tale decisione fu poi impugnata in Cassazione sia dai coniugi che dal ginecologo.
Sulla rilevanza giuridica degli obblighi deontologici del ginecologo già si è detto, giova invece porre l’attenzione su un altro interessante aspetto messo in risalto dalla Corte di Cassazione nella sua sentenza, che richiama i principi contenuti nella sentenza n. 14488/2004.
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I Giudici di legittimità hanno evidenziato come l’ordinamento positivo tuteli il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la “non nascita”, essendo pertanto, al più, configurabile un “diritto a nascere” e a “nascere sani”, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione:
- sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da “contatto sociale”, nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie;
- sotto il profilo pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela, cura e assistenza della maternità idonei a garantire al concepito di nascere sano.
Non è invece configurabile in capo al concepito un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”, come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194/1978, in base al quale si evince che:
- l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente tale termine);
- trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre;
- le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento, cioè, al nascituro);
e come emerge ulteriormente:
- dalla considerazione che il diritto di “non nascere” sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell’art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita), sicché il c.d. diritto di “non nascere” non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe pertanto non esistere più;
- dalla circostanza che ipotizzare un diritto del concepito a “non nascere” significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (ed in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l’esercizio definitivamente precluso.
Ne consegue che è da escludersi la configurabilità e l’ammissibilità nell’ordinamento del c.d. aborto “eugenetico”, prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l’interruzione della gravidanza, oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c., costituisce reato anche a carico della stessa gestante, essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni i patologie, ad essere propriamente tutelato dall’ordinamento.
Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d’informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto, ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall’art. 54 c.p.) prevista dall’art. 4 della legge n. 194/1978, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto, anche, ad eventuali contrarie clausole contrattuali: art. 1419, 2° Co., c.c.) alla stregua della vigente disciplina.
Nicola Nappi
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