All’inizio del nuovo anno ha fatto il giro del mondo la notizia dello stupro consumato nel Metaverso ai danni di una giovanissima ragazza del Regno Unito; il dibattito che ne è seguito ha aperto diversi percorsi di approfondimento nell’ambito delle cc.dd. scienze sociali, destando, nel contempo, notevole attenzione nell’opinione pubblica.
In prima battuta parrebbe utile interrogarsi sulle recondite ragioni che hanno indotto l’uomo del nostro tempo ad “inventarsi” il Metaverso, invero ben più profonde di quelle legate al profitto – che pure hanno il loro peso se è vero il monito di Timothy Sweeney, informatico statunitense, fondatore della Epic Games:
Se una Società centrale riuscirà ad avere il controllo del Metaverso, diventerà più potente di qualsiasi governo e sarà una sorta di Dio in terra”.
Freud sosteneva che l’uomo può trovare piacere, soddisfazione, felicità al di qua, nel mondo reale, o al di là, nel mondo irreale e fantastico: un gioco, questo, che regola costantemente la vita psichica umana.
E’ allora da quella attività fisiologica che accomuna tutti gli esseri umani, ovvero il pensiero, che occorre partire, notando come esso oscilli continuamente tra il reale e l’irreale, due mondi integrati e inscindibili, tra i quali l’uomo ha sino ad oggi “navigato” grazie al formidabile strumento dell’intuizione che gli ha consentito di realizzare, ad esempio, i capolavori delle arti figurative, della letteratura, del teatro o del cinema.
Il problema è – o meglio è fino ad ora stato – che di quel formidabile strumento, non tutti gli uomini sono forniti in egual misura … a meno che non si entri nel Metaverso!
L’esperienza è facilmente accessibile e, una volta indossato l’inquietante visore immersivo, meglio noto come oculus, difficilmente dimenticabile.
Personalmente, l’immediata sensazione sperimentata è stata quella di una cupa incertezza: prima ancora dello stupore per l’ambiente in cui si viene letteralmente catapultati, si è infatti imposta una netta percezione di insicurezza, derivante dal non poter in alcun modo prevedere cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco.
Con buona probabilità, una sensazione del tutto simile deve averla sperimentata quella giovane ragazza inglese, vittima di una violenza virtuale che è immediatamente divenuta il più reale dei traumi sperimentati in vita.
E’ accaduto che la minorenne abbia incontrato in una stanza dei perfetti sconosciuti adulti, i quali, spacciandosi per coetanei e attivando le funzioni a loro disposizione, hanno “esaminato” il corpo di quella che, a quel punto, è diventata una vittima, osservando le sue parti intime per poi toccarle.
Da questo, che è evidentemente il racconto della parte lesa, è scaturita l’indagine della polizia britannica, verosimilmente destinata ad approdare ad un processo.
Quella stessa esperienza rappresenta al contempo il punto di partenza di un’altra indagine che chiama “a rapporto” le scienze del diritto e della procedura penale, mettendole di fronte ad un duplice interrogativo: 1. è possibile ritenere consumata una violenza sessuale senza che vi sia un contatto fisico? 2. è concretamente percorribile il perseguimento di un reato commesso nel Metaverso?
Due sono quindi gli ambiti più propriamente scientifici che si offrono di dare risposta a questi interrogativi: uno afferente al diritto sostanziale, l’altro a quello processuale.
Il delitto di violenza sessuale è come noto sanzionato con la reclusione da 6 a 12 anni dall’art. 609-bis c.p. e consiste nella condotta di colui che con violenza, minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.
Inoltre, il comma 2 della stessa disposizione, commina la medesima sanzione all’ipotesi di commissione del reato abusando dell’inferiorità psichica o fisica della vittima, o traendo quest’ultima in inganno mediante sostituzione di persona.
Seguendo il classico approccio dell’analisi dell’elemento oggettivo del reato, appare evidente come l’espressione “compiere o subire atti sessuali” per nulla si concili con la condotta in precedenza descritta, posta in essere da soggetti virtuali (avatar), i quali mai avrebbero potuto realizzare un contatto fisico con la vittima.
Vero è però che la verifica delle conseguenze di quella medesima condotta, ovvero il danno recato alla persona offesa, non può che condurre ad una valutazione in termini di gravità del tutto analoga a quella esperibile nel caso di una violenza sessuale, per così dire, “tradizionale”.
Come spesso si è verificato in passato, l’elaborazione giurisprudenziale è di fatto intervenuta a sopperire ad una evidente lacuna legislativa derivante dal fatto che, a differenza di quanto ad esempio testualmente previsto per l’art. 612 bis c.p. (atti persecutori), né l’art. 609-bis c.p., né il successivo art. 609-ter c.p., fanno esplicito riferimento all’ipotesi di consumazione del reato mediante strumenti elettronici e/o telematici.
Nel corso dell’ultimo decennio, la portata di tali evidenti carenze letterali è stata in qualche modo contenuta da ripetute pronunzie della Suprema Corte, che già nel 2013, con la sentenza n. 19033 pronunciata dalla Terza Sezione, aveva ritenuto commesso il tentativo di violenza sessuale da parte di colui il quale, tramite minacce, voleva costringere le sue vittime a ricevere fotografie a contenuto esplicito che lo ritraevano e ad inviargliene altre in cambio.
Tale orientamento è stato poi ribadito in pronunce successive, nelle quali gli Ermellini hanno confermato le condanne avvenute in sede di appello nei confronti di soggetti che avevano costretto le vittime a ricevere od inviare materiale pornografico, nonché a subire messaggi allusivi o sessualmente espliciti (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 17509/2018; Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 25266/2020).
Per tale via appare quindi consolidato il principio per il quale, nella violenza sessuale commessa con strumenti telematici di comunicazione a distanza, la mancanza di contatto fisico tra l’agente e la vittima non è idonea né ad escludere la commissione del reato ex art. 609-bis c.p., né a garantire il riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità.
Altro e ben più gravoso problema è quello che attiene invece al diritto processuale, affetto da una sorta di congenita ed imbarazzante “balbuzie tecnolegislativa”, ogni volta che viene chiamato a confrontarsi con il mondo digitale.
Se ad esempio volessimo immaginare che la giovane vittima di cui abbiamo parlato fosse di nazionalità italiana e fosse stata virtualmente violentata, o anche “solo” molestata, da un utente del web che si fosse trovato in un paese che non prevede l’estradizione, o dove il suo comportamento non fosse tipizzato come reato – e paradossalmente ne esistono diversi – dovremmo tutti amaramente concludere che quelle condotte rimarrebbero impunite.
Altro problema, ancora afferente alla procedura: come e da chi possono essere raccolte prove utilizzabili in un giudizio nel rispetto delle regole di garanzia di un giusto processo, che in alcuni paesi sappiamo non esistono?
Senza ricordare, poi, che i fatti in questione sono accaduti in un mondo che non esiste e che da ciò non può che derivare l’impossibilità assoluta di individuare potenziali testimoni, in grado di riferire sulle circostanze che hanno portato alla consumazione del reato.
Per il momento le mani chiamate a sbrogliare matasse così intricate sono quelle degli organi di giustizia d’Oltremanica, ma è lecito arguire che prima di quanto si pensi il nostro sistema giudiziario sarà chiamato ad occuparsi di un caso analogo, se non più grave, senza che si sia pensato a predisporre strumenti normativi adeguati a fornire risposte chiare ed efficaci.
Leonardo Lastei
Ultimi post di Leonardo Lastei (vedi tutti)
- Il metaverso quale “nuova frontiera” della scienza penalistica - Gennaio 31, 2024