Con l’ordinanza n. 17360 del 27 giugno 2025 (premere qui per leggere), la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha fissato un punto importante nel diritto dell’informazione digitale, chiarendo la responsabilità del gestore di un blog per i contenuti diffamatori pubblicati da terzi. Il caso trae origine da commenti offensivi apparsi sul blog del convenuto, non rimossi nonostante una segnalazione specifica. Il ricorrente chiedeva il risarcimento dei danni per lesione della reputazione, sostenendo che il blogger, avendo pieno controllo dei contenuti, fosse responsabile della loro diffusione.
La Suprema Corte ha stabilito un equilibrio sottile tra libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e tutela della reputazione individuale (artt. 2 e 3 Cost.), tracciando confini precisi fra l’attività di hosting passivo e quella di hosting attivo, e tra la mera ospitalità tecnica dei contenuti e la consapevole partecipazione alla loro diffusione.
Ma vediamo bene.
La Cassazione ha riaffermato il principio in base al quale il blogger non è tenuto a un controllo preventivo dei commenti pubblicati da terzi, aggiungendo però che una volta ricevuta una segnalazione circostanziata circa l’illiceità di un contenuto, egli ha l’obbligo giuridico di attivarsi tempestivamente per rimuoverlo. Obbligo che non richiede, sia chiaro, una formale comunicazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa: è sufficiente una segnalazione chiara e inequivocabile del soggetto leso,
In caso contrario, la sua inerzia configura una consapevole adesione al contenuto illecito e fonda una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.
La Corte ha ribadito quindi che il gestore di un blog non coincide con un editore e non è dunque soggetto agli obblighi di verifica preventiva tipici del giornalismo. Tuttavia, quando il blogger interviene attivamente nella selezione, modifica o promozione dei contenuti, esso assume allora il ruolo di hosting provider attivo, perdendo così l’esenzione di responsabilità prevista dal D.lgs. 70/2003, artt. 14-17.
Giova qui ricordare che in base ai criteri già elaborati dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708), la qualifica di “hosting attivo” ricorre in presenza di attività di filtro, selezione o organizzazione dei contenuti, indicizzazione e promozione commerciale evalutazione comportamentale degli utenti. Tutte condotte, queste, che denotano una interferenza consapevole con il flusso informativo e spostano il baricentro della responsabilità dal piano tecnico a quello sostanziale.
Uno dei punti più significativi dell’ordinanza in commento è, a nostro sommesso avviso, la precisa delimitazione dell’onere probatorio a carico del soggetto che si ritiene leso da contenuti diffamatori ospitati in rete.
La Suprema Corte infatti, coerentemente con l’impianto del diritto civile e con i principi espressi dall’art. 2697 c.c., ha chiarito che il danneggiato non può limitarsi a dedurre genericamente la presenza di contenuti diffamatori, né invocare una responsabilità “oggettiva” del gestore del sito ma visto che, come detto, la responsabilità del blogger — come quella di qualunque hosting provider passivo — nasce solo se e quando egli acquisisce una conoscenza effettiva, concreta e qualificata dell’illiceità del contenuto e, ciononostante, omette di attivarsi per rimuoverlo o impedirne la ulteriore diffusione.
Il primo elemento da provare è quindi che il blogger non sia un mero prestatore tecnico, ma abbia esercitato un potere di intervento sui contenuti tali da configurare un ruolo attivo e partecipativo nella loro diffusione.
Si tratta di un accertamento di fatto che il giudice compie in base a indici di interferenza, ormai consolidati in giurisprudenza, quali l’attività di selezione o moderazione preventiva dei commenti, la indicizzazione o promozione commerciale dei contenuti, la personalizzazione algoritmica dell’offerta informativa o la finalità economica perseguita attraverso il traffico generato dai contenuti illeciti.
In presenza di tali elementi, il blogger non può invocare la neutralità tecnica propria dell’hosting provider passivo delineato dall’art. 16 D.lgs. 70/2003, ma assume il profilo di hosting provider attivo, con conseguente piena imputabilità ex art. 2043 c.c.
È dunque il danneggiato a dover fornire la prova di questo ruolo operativo, anche mediante elementi presuntivi, quali l’esistenza di sistemi di moderazione o di editing selettivo dei post.
Il secondo e più delicato profilo riguarda la consapevolezza dell’illecito.
La Corte chiarisce che la responsabilità non può fondarsi su una mera possibilità astratta di conoscenza (ad esempio, l’argomento che “il blogger avrebbe potuto saperlo”), ma richiede una conoscenza effettiva, ossia un’informazione di fatto, chiara, precisa e inequivocabile circa il carattere diffamatorio del contenuto.
Tale conoscenza può derivare, ad esempio, da una segnalazione formale del soggetto leso, da una diffida o comunicazione diretta oppure da circostanze oggettive, tali da rendere manifesto l’illecito anche in assenza di una segnalazione.
Come ha rilevato la Cassazione, la clausola “su comunicazione delle autorità competenti”, contenuta nell’abrogato art. 16 del D.lgs. 70/2003, non circoscrive le fonti di conoscenza, ma ne rappresenta una forma “qualificata”. In altre parole, la norma non esclude che la consapevolezza possa formarsi anche attraverso la segnalazione del danneggiato o tramite evidenze oggettive che rendano palese la natura offensiva del contenuto.
Il requisito della “conoscenza effettiva” serve a evitare che il provider venga gravato di un obbligo generale di sorveglianza preventiva, in contrasto con l’art. 17 dello stesso decreto, ma garantisce al contempo la tutela effettiva del diritto alla reputazione, imponendo l’attivazione tempestiva una volta che l’illiceità sia divenuta manifesta.
Infine, il danneggiato deve provare che l’inerzia del gestore abbia causato o aggravato il pregiudizio alla propria reputazione.
Ciò implica la dimostrazione che, se il blogger si fosse attivato diligentemente (ad esempio rimuovendo il commento entro un termine ragionevole), la diffusione dell’offesa si sarebbe interrotta o ridotta.
Questo giudizio è di tipo controfattuale: il giudice deve chiedersi se, in presenza di una pronta rimozione, il danno si sarebbe comunque verificato.
La prova può essere desunta anche da elementi temporali (data della segnalazione, data della rimozione, durata della permanenza online del contenuto) e dalla visibilità del sito o del post (numero di accessi, condivisioni, indicizzazione su motori di ricerca).
La Cassazione, in coerenza con l’impostazione del D.Lgs. 70/2003 e della giurisprudenza unionale (Corte di Giustizia, cause C-324/09 L’Oréal c. eBay e C-682/18 YouTube c. Cyando), sottolinea che la condotta omissiva del provider, se consapevole, equivale a condivisione attiva dell’illecito: l’omessa rimozione tempestiva trasforma il silenzio in cooperazione.
In definitiva, ci sembra di poter ragionevolmente affermare che è la consapevolezza effettiva e qualificata a rappresentare il vero discrimine tra liceità e responsabilità.
Non è sufficiente che il gestore “potesse sapere”: è necessario che sapesse o dovesse sapere, secondo il parametro della diligenza professionale media (art. 1176, comma 2, c.c.).
Il blogger o gestore di piattaforma è tenuto, in virtù della sua posizione, a valutare con attenzione le segnalazioni ricevute, e non può ignorare con leggerezza contenuti manifestamente lesivi, pena l’assimilazione alla condotta dolosa o gravemente colposa.
La “qualificazione” della conoscenza è dunque un giudizio misto, oggettivo e soggettivo insieme. Oggettivo, perché basato su elementi verificabili (contenuto, contesto, evidenza della lesione), soggettivo, perché rapportato alla competenza tecnica e professionale del gestore.
In questo equilibrio si innesta la ratio della decisione: limitare la responsabilità agli operatori realmente consapevoli e inerti, evitando di trasformare l’hosting in un’attività di censura preventiva, ma esigendo comunque una vigilanza diligente e reattiva.
Di rilevante interesse è anche quanto i Giudici di Legittimità affermano in tema di lesione della reputazione come danno conseguenza.
Com’è noto, nel sistema della responsabilità civile, la lesione della reputazione non si configura come un danno “automatico”, bensì come un danno conseguenza, la cui risarcibilità è subordinata alla prova di un pregiudizio effettivo, concreto e attuale.
La Cassazione — in linea con un orientamento ormai consolidato — ha più volte ribadito che la mera lesione del diritto della personalità non implica ex se un danno risarcibile, essendo necessario accertare la sussistenza di un pregiudizio oggettivamente apprezzabile e causalmente connesso all’illecito.
La giurisprudenza distingue da tempo tra:
- danno evento, ossia la lesione in sé di un diritto soggettivo o di un interesse protetto (nel caso di specie, la reputazione);
- danno conseguenza, cioè la ripercussione patrimoniale o non patrimoniale che da quella lesione deriva, e che deve essere dimostrata dal danneggiato ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Nel caso di diffamazione — anche se commessa on-line — la lesione dell’onore o della reputazione è il fatto generatore dell’illecito, ma solo il pregiudizio concretamente subìto (es. perdita di relazioni professionali, isolamento sociale, sofferenza morale tangibile) costituisce l’oggetto del risarcimento.
L’art. 2059 c.c. consente il ristoro del danno non patrimoniale solo “nei casi determinati dalla legge”, e tra questi rientrano i diritti inviolabili della persona tutelati costituzionalmente. Va detto, comunque, che la risarcibilità non è automatica: il giudice deve verificare che la lesione abbia prodotto una sofferenza o un turbamento effettivo, serio e apprezzabile, e non un mero disagio soggettivo.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione, il danno non patrimoniale da diffamazione non può presumersi in re ipsa, ma deve essere allegato e dimostrato, seppure anche tramite presunzioni semplici e massime di esperienza.
Il danneggiato deve dunque fornire elementi quantitativi, relativi all’estensione della diffusione del contenuto diffamatorio (ad esempio numero di visualizzazioni, condivisioni, indicizzazione del post su motori di ricerca, risonanza mediatica), oltre che elementi qualitativi, legati alla gravità dell’offesa, al tenore espressivo, alla posizione sociale e professionale dell’offeso e alla verosimile percezione collettiva del contenuto lesivo.
Va detto comunque che la prova ben potrebbe essere raggiunta anche per via indiretta, valorizzando, ad esempio, il contesto comunicativo (commenti reiterati, tono denigratorio, persistenza in rete del contenuto), la notorietà del soggetto diffamato e la credibilità e il seguito del mezzo di diffusione (un blog tematico, un social network, una testata on-line).
Tale impostazione è stata recepita anche nella dottrina civilistica più recente, che valorizza l’elemento dell’intensità della lesione e della durata della permanenza on-line come parametri sintomatici di un danno effettivo.
Una volta accertata la sussistenza del danno, la liquidazione avviene secondo i criteri di equità pura, ex art. 1226 c.c., in quanto la natura immateriale della lesione non consente una quantificazione analitica, pur dovendo comunque il giudice fondare la propria valutazione su parametri oggettivi, evitando automatismi o risarcimenti simbolici.
I criteri comunemente utilizzati comprendono:
- la gravità dell’offesa (contenuto, linguaggio, intento denigratorio);
- la diffusione del mezzo di comunicazione (ampiezza e durata della circolazione);
- la rilevanza sociale e professionale dell’offeso;
- l’inerzia del provider o del blogger, se abbia aggravato il pregiudizio;
- la riparazione spontanea o le condotte post factum (rimozione, scuse, rettifica).
Tale approccio è coerente con la giurisprudenza di legittimità che ha, nel tempo, sostituito il modello del “danno in re ipsa” con quello del danno presunto, ma dimostrabile attraverso elementi concreti.
Nel caso della diffamazione a mezzo web, la permanenza del contenuto in rete e la capacità di propagazione virale amplificano il danno, costituendo un parametro aggravante nella determinazione del quantum.
Accanto al danno morale, può configurarsi anche un danno patrimoniale in senso stretto, qualora l’illecito abbia inciso su rapporti economici, contratti o reputazione professionale.
La giurisprudenza riconosce in questi casi la possibilità di stimare il danno secondo il criterio del cosiddetto “prezzo del consenso”, ossia il valore economico che l’autore dell’illecito avrebbe dovuto corrispondere per poter legittimamente utilizzare il nome, l’immagine o l’identità altrui.
Questo parametro è particolarmente rilevante nei casi in cui la reputazione dell’offeso rivesta una valenza economica — ad esempio per professionisti, artisti, influencer o imprese — e la diffamazione ne riduca la credibilità commerciale o il capitale reputazionale.
La Cassazione ha ribadito che la prova del danno non patrimoniale può essere fornita anche per presunzioni semplici, purché fondate su elementi precisi e concordanti, come l’ampia diffusione del contenuto, l’intensità dell’offesa alla dignità personale o professionale, il turbamento della vita relazionale o familiare, la sofferenza morale desumibile da comportamenti conseguenti (es. ritiro da attività pubbliche o social).
Questo modello, improntato a una razionalità probatoria realistica, evita il rischio di automatismi risarcitori ma, al contempo, non lascia senza tutela chi subisce offese on-line di particolare gravità.
E’ chiaro quindi che il contesto digitale introduce nuovi parametri di misurazione del danno reputazionale quali la visibilità del contenuto (es. numero di visualizzazioni o “engagement”), la persistenza nel tempo (archiviazione automatica, copie cache, condivisioni) e la indicizzazione nei motori di ricerca (che amplifica l’accessibilità).
In tal senso, la persistenza della lesione on-line è un fattore aggravante perché prolunga nel tempo l’esposizione al discredito e rende il pregiudizio difficilmente reversibile.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, già con la sentenza Google Spain (C-131/12), ha evidenziato come la permanenza di contenuti lesivi incida sulla dignità e sulla vita privata dell’individuo, legittimando il diritto all’oblio e il correlato dovere di deindicizzazione.
Insomma, ci sembra di poter affermare che l’ordinanza in commento si inserisce nel solco di una giurisprudenza europea e nazionale che tende a responsabilizzare gli intermediari digitali senza, tuttavia, ostacolare la libera circolazione delle idee.
Il principio cardine resta quello dell’equilibrio proporzionale: la tutela dei diritti della personalità deve convivere con la libertà di espressione e di informazione, specie in contesti digitali a partecipazione diffusa.
In prospettiva, la pronuncia offre una chiave interpretativa anche per l’applicazione del Regolamento (UE) 2022/2065 (Digital Services Act), che ha rafforzato gli obblighi di trasparenza e di rimozione tempestiva dei contenuti illeciti, mantenendo la logica della “notice and take down”.
La rete non è e non deve essere una zona franca, ma uno spazio di libertà regolata, dove la manifestazione del pensiero incontra i limiti del rispetto della dignità e della reputazione altrui.
Per approfondire:
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Nicola Nappi
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