La questione della prevedibilità delle decisioni giuridiche tocca il cuore stesso del diritto: è possibile pensare una giustizia senza prevedibilità? Oppure — in linea con quanto sostenuto da Oliver Wendell Holmes — «il diritto è la predizione dell’uso della forza pubblica da parte dei giudici»?
Ora, se il diritto serve a regolare i comportamenti individuali e collettivi, la sua efficacia è direttamente proporzionale alla capacità degli operatori giuridici (e dei cittadini) di anticiparne gli effetti. Una giustizia davvero opaca, erratica, improvvisa, cesserebbe di essere tale, degenerando in quella che il Prof. Mauro Barberis chiama «giustizia del cadì»: arbitraria, rituale, premoderna.
Mi sia concessa ora una breve riflessione sulla definizione di “giustizia del cadì”, proposta dal Prof. Barberis, che costituisce, a mio sommesso avviso, una delle immagini più efficaci e provocatorie per descrivere cosa accade quando il diritto perde la propria struttura razionale e prevedibile.
Il riferimento è a una forma di giustizia arcaica, non scritta, affidata a un’autorità singolare che decide caso per caso senza obblighi di coerenza, senza precedenti da rispettare né norme da applicare secondo metodo. È una giustizia “più politica che giuridica”, come osserva lo stesso Barberis, e proprio per questo estranea alla tradizione occidentale dello Stato di diritto.
Nel pensiero di Barberis, questa figura rappresenta un “tipo ideale negativo”, un contro-modello rispetto alla giustizia moderna, che si fonda sulla certezza normativa, sulla prevedibilità decisionale e sulla sottomissione del giudice alla legge. Non è un caso che Max Weber, da cui Barberis trae ispirazione, associasse la giustizia del cadì a un ordinamento personale, irrazionale e sostanzialmente arbitrario, proprio dei regimi teocratici o patrimoniali.
In questo senso, la prevedibilità non è solo una qualità tecnica del diritto, ma un fondamento politico e culturale della democrazia liberale. Dove manca, subentra l’arbitrio; e dove regna l’arbitrio, non c’è diritto, ma potere mascherato da giudizio.
Il paradosso odierno, messo bene in luce dai critici della giustizia predittiva algoritmica, è che l’automazione cieca — se adottata senza adeguati contrappesi — potrebbe produrre una forma moderna di “giustizia del cadì digitale”.
Non più il cadì come persona, quindi, ma il cadì come algoritmo opaco, non sindacabile, non interpretabile, non motivabile. Una “scatola nera” che restituisce esiti ma non ragioni. Questo rischio è tutt’altro che teorico, come dimostrano casi già accaduti negli Stati Uniti (si pensi al noto caso Loomis/COMPAS), dove il giudice ha applicato una pena aggravata sulla base di un coefficiente predittivo non controllabile né impugnabile.
In questi scenari, la giustizia non ritorna al passato, ma retrocede nella forma: da esercizio razionale e motivato a output meccanico e impersonale, con un’illusione di neutralità che nasconde pregiudizi sistemici, bias storici, rigidità statistiche.
È allora necessario riaffermare che la prevedibilità, se ben costruita, non è nemica della giustizia, ma sua condizione. Non si tratta di irrigidire il diritto in formule matematiche, ma di assicurare che le decisioni non siano capricciose, che si possa contestarle, prevederle, discuterle.
Come scrive il Prof. Barberis, «non c’è giustizia senza un minimo di certezza»; ma quella certezza deve essere orientata alla ragionevolezza, non alla mera ripetizione!
In definitiva, la giustizia del cadì non è solo il ricordo di un passato premoderno, ma una minaccia sempre presente: ogni volta che si cede all’arbitrio, alla tecnocrazia opaca, alla rinuncia motivazionale. La sfida è allora culturale: preservare il carattere umano e dialogico del giudizio, senza perdere l’orizzonte di una prevedibilità costruita, motivata e giustificabile.
Ora, tornando a noi, la prevedibilità si deve necessariamente connettere ai modelli di decisione adottati nei diversi ordinamenti:
- il sistema di civil law (come quello italiano) valorizza la legge come fonte primaria. Il giudice cerca di sussumere il caso concreto nella norma generale, in un tipico procedimento deduttivo;
- il sistema di common law, invece, fonda la decisione su precedenti giurisprudenziali, secondo un procedimento induttivo: si parte da casi già decisi per estrarne principi da applicare a casi simili.
Ecco, bisogna ora tenere bene in considerazione che la giustizia predittiva — specialmente quella algoritmica — opera sempre in chiave induttiva: a prescindere dal sistema giuridico, essa necessita di una base dati di decisioni passate da generalizzare. Ne consegue un paradosso: l’intelligenza artificiale predittiva ragiona più come un common lawyer che come un civilista.
Sul punto si potrebbero aprire ampie, ampissime riflessioni, che però per ragioni di opportunità ci esimeremo dall’esporle in questa sede.
Ciò che qui invece giova precisare è che la prevedibilità delle decisioni, ad ogni modo, non si basa solo sulla replica dei precedenti, ma si fonda bensì su elementi più sottili e culturali:
- vicinanza teorica tra giudici, che condividono metodo, fonti e valori;
- chiarezza normativa, che riduce ambiguità e conflitti interpretativi;
- stabilità del contesto giuridico, che permette il consolidamento delle aspettative.
Da qui il valore “convenzionale” della predizione: una decisione conforme alla previsione sociale rafforza la fiducia nel sistema. Viceversa, un sistema imprevedibile mina la legittimità dell’intero ordinamento.
Non si può comunque non tenere in considerazione come nel contesto italiano, la distanza tra “precedente” e “massima” si sia ridotta. Le riforme processuali del 2006–2016 hanno attribuito alla Corte di Cassazione una funzione nomofilattica accentuata: il principio di diritto enunciato in sentenza diventa una regola “forte” per la soluzione delle controversie future.
Questa tendenza avvicina notevolmente il nostro ordinamento al modello del common law, anche se la vincolatività del precedente resta solo, per così dire, “persuasiva”. Va detto comunque, e ci sia scusato il semplice paradigma, che massimare significa stabilizzare, e la stabilità significa prevedibilità.
La giustizia predittiva di nuova generazione — quella cioè alimentata da algoritmi di machine learning — promette di rafforzare la prevedibilità. Ma è una promessa fragile.
Come ricordano i Professori Tommaso Vecchi e Daniele Gatti, la memoria non serve solo a ricordare: serve a prevedere. La mente umana — e per imitazione, quella artificiale — costruisce modelli del futuro a partire da regolarità osservate nel passato.
Ma una cosa è la predizione, un’altra la decisione. Solo l’essere umano è titolato a decidere: l’algoritmo può prevedere, ma non può giudicare.
In definitiva, prevedere è necessario, ma non sufficiente. Il diritto non è solo previsione statistica, ma giudizio critico, responsabilità istituzionale, sensibilità al caso concreto. Se la prevedibilità diventa automatismo, si rischia di soffocare l’umanità del giudizio sotto l’inerzia del dato.
La giustizia predittiva deve allora essere un orizzonte di razionalizzazione, non un programma di disumanizzazione. Prevedere, sì. Ma decidere è un’altra cosa.
Per approfondire:
- G. SARTOR, A. SANTOSUOSSO, Giustizia predittiva: una visione realistica, in Giurisprudenza Italiana, 2022, p. 1760 ss.;
- M. BARBERIS, Giustizia predittiva: ausiliare e sostitutiva. Un approccio evolutivo, in Milan Law Review, Vol. 3, No. 2, 2022, p. 6 ss.;
- G. GOMETZ, La certezza giuridica come prevedibilità, Torino, 2005;
- O. W. HOLMES, The Path of the Law, in Harvard Law Review, Vol. 10, 1897, p. 457-478;
- T. VECCHI, D. GATTI, Memory as Prediction. From Looking Back to Looking Forward, Cambridge, 2020.
Nicola Nappi
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